Te li ricordi i primi anni Duemila, quelli che qualcuno chiama gli anni Zero?
Le radio passavano i Green Day, Amy Winehouse era all’apice della carriera. La gente impazziva per le prime edizioni del Grande Fratello.
Io avevo molti più capelli e pensavo ancora che da grande avrei fatto…
La verità? Non ne avevo la benché minima idea! Ma questa è un’altra storia.
Nel frattempo dall’altra parte dell’Atlantico, in un soleggiato ufficio della California, dei ragazzotti con gli occhiali e il tipico aspetto da nerd si spremevano le meningi per capire come insegnare a un algoritmo a comprendere il linguaggio umano.
Hai indovinato, sto parlando proprio degli ingegneri di Google.
Ma torniamo veloci al 2022.
Quegli stessi ragazzotti, ormai diventati uomini di mezza età, sorridono compiaciuti in una sala riunioni che potrebbe contenere due volte il bilocale dove abitavano all’ora quei ragazzi.
Non a caso parliamo di una multinazionale con cui persino i governi devono fare i conti.
E tutto grazie ad un’intuizione semplice ma geniale: usare l’intelligenza artificiale per potenziare la capacità di comprensione semantica degli algoritmi.
Ma come si è arrivati a questo punto? Come ha fatto Google a passare da semplice catalogatore di documenti virtuali a entità semi-intelligente?
E, soprattutto, che ruolo gioca l’intelligenza artificiale sulla SEO come la conosciamo oggi?
Allaccia le cinture, perché stiamo per inforcare la DeLorean e fare un salto nel passato.
Pronto ad affrontare un Ritorno al Futuro in versione SEO?
Dai che partiamo!
Quando una pizza era solo una pizza: i primi anni di Google
C’era una volta Google, il progetto di tesi di due studenti di dottorato di Stanford.
Nei suoi primi anni di vita, Google funzionava in modo piuttosto semplice: potremmo dire che lavorava come un bibliotecario particolarmente pedante.
In pratica, quando un utente inseriva la parola “pizza” nella barra di ricerca, Google andava ad analizzare i documenti web (siti) nel suo catalogo e restituiva tutti i risultati che contenevano il termine “pizza”.
Se il proprietario del sito di una pizzeria aveva problemi con l’ortografia e scriveva per sbaglio “pziza” sulle sue pagine, Google non riusciva a individuarlo nella ricerca.
I primi veri progressi nella comprensione del linguaggio sono stati proprio quelli legati agli errori e ai refusi. Google ha infatti imparato a riconoscere dei pattern cercando di comprendere i più comuni errori di ortografia e di battitura… uno sviluppo che avrebbe infine portato a sviluppare strumenti che oggi riteniamo indispensabili come Google Suggest.
La vera svolta, però, si ha nel 2015, quando Google introduce RankBrain.
Google RankBrain: l’inizio di una nuova era
Lo dico senza mezzi termini: l’arrivo di RankBrain ha rivoluzionato il mondo della SEO.
RankBrain è stato come l’asteroide che ha messo fine all’epoca dei dinosauri.
Prima di RankBrain vivemo in un mondo (virtuale) dominato da grandi rettili: impressionanti, sì, ma anche un po’ ottusi. Con RankBrain invece è iniziato il dominio dei mammiferi, l’età del più scaltro e del più adattabile.
Ma perché RankBrain ha sconvolto così tanto l’universo della SEO?
RankBrain è stato il primo sistema di deep learning basato sull’intelligenza artificiale. E, soprattutto, RankBrain ha permesso a Google di comprendere come le parole sono legate ai concetti della vita reale.
Sì, lo so, a noi non sembra un gran traguardo: qualsiasi bambino che impara a parlare fa questo passaggio quando ha circa un annetto, no?
I computer però non sono affatto svegli come i bambini. I computer – anche quelli di Google – non sono altro che sofisticati frullatori.
Con RankBrain, Google smette di applicare il match esatto tra ricerca e risultato, e prova invece a comprendere il senso e l’intento delle ricerche.
Per farti capire meglio uso un esempio firmato da Google in persona.
Un utente scrive nella barra di ricerca:
Qual è il nome del consumatore al livello più alto della catena alimentare?
Come vedi, questo è proprio il tipo di query imprecisa che si digita quando si ha un lapsus momentaneo e si vuole una risposta veloce.
Ovviamente “consumatore” non è una parola corretta in questo contesto, ma è una parola che una persona potrebbe effettivamente usare se non ricordasse il termine più appropriato.
Come agisce RankBrain su una query di questo genere?
La interpreta sulla base di ciò che ha imparato.
Le intelligenze artificiali che scansionano le pagine web hanno appreso infatti che quando si parla di “catena alimentare” ci si riferisce solitamente agli animali.
Il sistema riesce a comprende quindi che, in questo caso, “consumatore” non si riferisce ad un essere umano e a fornire dei risultati attinenti al concetto corretto, quello di predatore apicale.
Insomma, RankBrain mette il cervello delle AI al servizio del ranking, scompaginando le SERP.
Da questo momento in poi l’uso quantitativo delle parole chiave perde drasticamente la sua importanza. Per scalare le pagine dei risultati bisogna iniziare a ragionare sull’intento di ricerca.
E oggi?
Beh, RankBrain è tutt’ora in uso, ed è forse l’algoritmo che più influenza i risultati delle SERP.
Dopo il salto quantico non si può tornare indietro!
Leggi anche: Rank Brain: conosci il cervello di Google e posiziona il tuo sito web
Neural matching: le reti neurali sbarcano su Google
Per parlare di Neural Matching dobbiamo necessariamente parlare di reti neurali.
Credimi, non è un compito facile, perché si tratta di sistemi informatici molto avanzati… ma vale la pena provarci 🙂
Possiamo dire che le reti neurali sono simili a cervelli artificiali.
[Estremamente simili, in realtà, perché si ispirano proprio al funzionamento del cervello umano]
Questi cervelli artificiali, basati sulle connessioni tra neuroni artificiali, possono essere addestrati e “imparare” a svolgere determinate funzioni.
Facciamo un esempio. Tutti gli esseri umani che conosco, persino quelli meno svegli, sanno distinguere facilmente la foto di un cane dalla foto di un gatto. Per un computer, però, non è così semplice.
Tuttavia una rete neurale può essere formata per insegnarle ad apprendere la differenza tra un cane e un gatto.
Funziona così. All’inizio il modello proverà ad indovinare in modo randomico. Poi gli umani applicano delle etichette su una serie di foto, indicando se si tratta di cani o di gatti. La macchina usa le etichette come feedback e aggiusta i suoi parametri. Il processo continua fino a che la rete neurale è in grado di riconoscere un cane o un gatto all’interno di foto che non ha mai analizzato prima.
Tutto chiaro?
Bene. Nel 2018 Google inizia ad utilizzare sistematicamente le reti neurali con l’introduzione dell’algoritmo Neural Matching.
L’obiettivo principale di Neural Matching è capire meglio come le query si relazionano con le pagine.
Dichiaratamente, questo nuovo algoritmo allarga ancora di più il lavoro iniziato con RankBrain. Le AI cercano di comprendere meglio i concetti che stanno dietro alle query o che vengono trattati nelle pagine web, aiutando Google a recuperare le pagine più rilevanti all’interno di un flusso di informazioni enorme e in continua evoluzione.
“Google BERT”: context is king
L’implementazione di BERT, lanciata nel 2019, rappresenta un enorme passo in avanti nel tentativo di Google di comprendere il linguaggio naturale.
Con questo sistema, infatti, Google inizia a capire come le combinazioni di parole possano esprimere significati e intenzioni differenti. Invece che concentrarsi sulle singole parole che compongono la query, BERT punta ad analizzare l’intera sequenza per estrapolare meglio il search intent.
Questa caratteristica è utile a fornire risultati rilevanti soprattutto con le query e lunghe complesse, in cui viene dato un peso maggiore anche alle preposizioni e alle congiunzioni.
L’immagine qui sopra aiuta a capire bene l’evoluzione delle SERP con Google BERT.
Cosa è successo?
Prima di BERT, Google dava più importanza alla ricerca di un “libro di matematica”, ignorando la specifica “per adulti”. Il risultato suggerito era quindi un popolare libro di esercizi.
Dopo l’introduzione di BERT, Google è evidentemente in grado di capire meglio l’intento della ricerca. Il risultato suggerito non ha una corrispondenza esatta a livello di keyword (adults/grownups) ma risponde con maggiore precisione all’effettiva necessità degli utenti.
Insomma, BERT mette l’ultimo chiodo sulla bara della keyword, quella parolina magica che noi consulenti SEO amavamo tanto…
Oggi BERT entra in gioco nella maggior parte delle ricerche che si compiono su Google. La comprensione avanzata del linguaggio garantita da BERT aiuta infatti a classificare rapidamente le pagine web e ad ordinarle in base alla rilevanza rispetto alla specifica query.
Straordinario, no? Sì, ma solo se non hai ancora sentito parlare di Google MUM…
Leggi anche: Google BERT (spiegato facile)
Google MUM, dalla comprensione del linguaggio all’elaborazione di informazioni
A maggio del 2021 Google ha presentato al mondo la sua ultima creatura: MUM (Multitask Unified Model).
Google BERT di per sé poteva apparire incredibilmente smart. Ma, messo a confronto con MUM, il povero BERT sembra una Panda di fianco a una Maserati.
Google MUM è infatti mille volte più potente di BERT. E non solo è in grado di comprendere il linguaggio, ma anche di generare risposte in autonomia.
Inoltre è addestrato (e può recuperare informazioni) su pagine web in 75 lingue diverse, può compiere diverse attività allo stesso tempo ed è pure multimodale, nel senso che può estrarre informazioni da testi, immagini e – nel futuro prossimo – video.
L’ultimo nato di casa Google è proprio un bambino prodigio, di quelli così talentuosi da risultare fastidiosi.
[Non per niente la sua comparsa ha allarmato i consulenti SEO di tutto il mondo, perché sembra proprio che Google abbia deciso di poter rispondere alle query senza obbligare gli utenti a visitare le pagine.
Ne ho parlato approfonditamente qui: Google MUM, Il nuovo algoritmo a base di AI che forse ucciderà la SEO]
Per ora Google sta facendo un uso estremamente limitato di MUM, segno che forse il nuovo nato non è ancora pronto per essere lanciato nel mondo. Il nuovo algoritmo è stato utilizzato ad esempio nelle SERP relative ai vaccini contro il COVID e verrà sperimentato nei prossimi mesi per testare su Google Lens un metodo di ricerca “ricco” che utilizza sia testo che immagini.
E poi… chi può dirlo.
Una cosa la sappiamo per certo, però: se MUM sbarca sulla SERP, ci sarà un concorrente in più con cui battagliare per guadagnare le prime posizioni.
E questo concorrente è il figlio del capo. O, in altre parole, Google stesso.
Capisci bene che la situazione si fa delicata…
AI, algoritmi e copywriting: Pane e mortadella… il futuro della SEO è in mano ai robot?
Dopo tutto questo parlare di intelligenze artificiali al servizio di Google, forse ti ho acceso in testa un ricordo…
Ehi, ma cos’era quella pubblicità che ho visto? Dai, quella che prometteva di scrivere i testi con l’AI…
Ebbene sì, negli ultimi anni gli strumenti di AI copywriting stanno spuntando ovunque, come lumache dopo un acquazzone.
Per chi non lo sapesse, parliamo di tool in grado di “scrivere autonomamente” su un certo tema. Le virgolette, fidati, sono d’obbligo.
Può dunque essere questa la soluzione per salvaguardare i nostri preziosi ranking? Contrapporre robot ad altri robot, ripagare Google con la sua stessa moneta?
La mia risposta potrebbe riassumersi in una parola: Alexa.
(Ma anche Siri o Google Home).
Se avete mai avuto tra le mani uno di questi device, sapete che le risposte fornite non sono particolarmente “intelligenti”.
Possono essere enciclopediche o brillanti. Ma prova a chiedere ad un’intelligenza artificiale di fare ragionamenti complessi e… beh, ci sono diversi video comici a testimoniare il risultato.
Certo, non tutti i contenuti web richiedono grandi sforzi di ragionamento. I tool di AI copywriting se la cavano abbastanza bene a sviluppare testi su topic semplici e molto comuni sul web.
Solo che gli articoli che ne risultano sono interessanti quanto un seminario sulle polizze assicurative. Dopo pranzo. In estate. In una stanza senza condizionatore.
Insomma, io non credo che i robottini ci aiuteranno a piacere di più al robottone (Google).
Ti inviterei invece a concentrarti sull’obiettivo che ha guidato tutte le recenti evoluzioni di Google: comprendere meglio le motivazioni che stanno dietro alle ricerche.
Solo capendo il search intent puoi sperare di creare contenuti completi, veramente in grado di aiutare le persone.
Dall’analisi delle necessità (vere) degli utenti deriva infatti il superpotere definitivo: l’empatia.
Quella polvere di stelle che fa brillare i tuoi contenuti, facendo scattare la magia che solo la comunicazione reale sa attivare.
Un potere, tra l’altro, che ai robottini scriventi è ancora precluso.
PS: Se ti interessano questi temi, ti consiglio di iscriverti al gruppo Facebook di Scrittura Visibile. Lì dentro parliamo di scrittura, SEO, Google, intelligenze artificiali e molto altro 😉