Google è al centro di un nuovo processo Antitrust che inizierà il 12 settembre 2024, focalizzato sul presunto monopolio nella pubblicità digitale, che rappresenta la sua principale fonte di guadagno. Se ritenuta colpevole, la società potrebbe essere costretta a modificare le sue pratiche pubblicitarie, con possibili ripercussioni per gli inserzionisti e le piccole imprese che si affidano ai suoi servizi.
Il 12 settembre 2024 si terrà un processo contro Big G: sotto la lente d’ingrandimento stavolta c’è la pubblicità (la sua principale fonte di guadagno)
Mi piace pensare che Google, nel suo grattacielo di Mountain View, abbia un piano intero dedicato a risolvere problemi legali. Non fraintendetemi, non sto insinuando che Big G passi più tempo in tribunale che a innovare (non oserei mai…).
Diciamo che, quando sei un gigante della tecnologia e il tuo principale asset – la pubblicità – vale più del PIL di intere nazioni, qualche grattacapo è inevitabile. E ora, per Google, i guai sono tutt’altro che finiti.
Come se non bastasse il processo del 5 agosto 2024 che ha visto Big G condannata per posizione monopolistica nel mercato dei motori di ricerca, ecco che arriva una nuova grana.
A settembre, precisamente il 12, parte un nuovo processo Antitrust negli Stati Uniti, e questa volta l’accusa riguarda proprio l’anima finanziaria di Google: la pubblicità. E ora la situazione si fa davvero seria.
Il Dipartimento di Giustizia USA VS Google: un focus sul processo
Iniziamo dalle basi: chi è coinvolto? Alphabet, la società madre di Google, affronta un’altra battaglia legale contro il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti.
Questo nuovo processo si svolgerà in un tribunale di Alexandria, Virginia, e sotto la lente ci sarà il presunto abuso di Google nel mercato della pubblicità digitale.
Qual è la novità, dirai tu… Big G è già stata condannata per monopolio ad agosto, non è uno scherzo, sappiamo bene come Google rischi di perdere Android e Chrome. Ma questa volta il focus non è sulla ricerca, bensì sulla tecnologia pubblicitaria.
E cosa c’è in gioco? Parliamo del cuore pulsante del business di Google, quella macchina che ha generato il 75% dei suoi 307,4 miliardi di dollari di fatturato nel 2022. Il tutto ruota attorno agli strumenti che Google usa per connettere inserzionisti ed editori. Un business che, secondo il Dipartimento di Giustizia, soffoca la concorrenza e penalizza i giornali e i media online.
I numeri che circolano sono francamente impressionanti: come riporta Reuters, il gigante di Mountain View controllerebbe il 91% dei server pubblicitari (dove gli editori offrono spazi per annunci), l’85% dei network pubblicitari (utilizzati dagli inserzionisti per posizionare gli annunci) e oltre il 50% delle piattaforme di scambio pubblicitario.
Se queste percentuali non ti spaventano, immagina che la tua azienda dipenda da un sistema in cui Google prende una fetta enorme della torta pubblicitaria globale. In questo senso, è comprensibile come piccoli editori e agenzie pubblicitarie lamentino da anni una competizione impossibile.
Google e il “Walker Memo”: “Ciò che succede a Mountain View, rimane a Mountain View”
Come ti avevo scritto, il 18 giugno 2024 Big G decise di sborsare 2,3 milioni di dollari per evitare la giuria popolare e affidarsi a un unico giudice: quel giudice si chiama Leonie Brinkema.
La sua gestione del processo non sta passando inosservata, durante le udienze preliminari, la Brinkema ha espresso critiche pungenti nei confronti di Google, accusandola di pratiche “assolutamente inappropriate e scorrette” nella gestione delle informazioni riservate. Al centro di queste critiche c’è il cosiddetto Walker Memo, un documento del 2008 redatto dal capo dell’ufficio legale di Google, Kent Walker.
Il Walker Memo consigliava ai dipendenti di adottare la politica “communication with care,” che includeva l’uso di chat con la modalità “history off,” in cui i messaggi venivano automaticamente cancellati dopo 24 ore.
La giudice Brinkema non ha mancato di notare che Google potrebbe aver deliberatamente distrutto prove rilevanti, chiamando sarcasticamente questa pratica “Vegas mode,” con chiari riferimenti al motto “ciò che accade a Las Vegas, resta a Las Vegas.”
I protagonisti del processo: cosa rischia Big G?
Sul banco dei testimoni potrebbero comparire volti noti del mondo dei media e della tecnologia: News Corp, Daily Mail, Gannett e altri nomi pesanti del panorama giornalistico mondiale sono pronti a dire la loro.
E poi ci saranno i pezzi grossi di Google: il CEO di YouTube Neal Mohan, ex responsabile proprio della divisione pubblicitaria di Google, sarà chiamato a spiegare come la società gestisce il suo ecosistema pubblicitario.
Non mancheranno le voci dei concorrenti, come Trade Desk e PubMatic, che sottolineeranno come l’ecosistema di Google sia difficile da aggirare per chiunque voglia fare pubblicità online.
Sospetti peraltro già emersi dallo scandalo della fuga di notizie “Google Leak” di maggio 2024.
Ma cosa vuole ottenere il Dipartimento di Giustizia? E cosa rischia davvero Google in questo processo?
La posta in gioco è alta: se Big G sarà ritenuta colpevole, si potrebbe arrivare a una vera e propria divisione della società. Come sai, il DoJ (Department of Justice) ha chiesto lo smembramento di Google che rischierebbe di perdere Android e Chrome, oltre che vedersi costretta a rivelare i dati degli utenti raccolti negli anni alle società concorrenti, in modo che il divario tra Big e i competitor si assottigli, riequilibrando di più il mercato.
Quest’eventualità ha fatto sobbalzare non pochi esperti in ambito di advertising digitale.
Ad esempio, Brian Wieser, consulente pubblicitario e analista finanziario, ha affermato che “Google è di gran lunga il più grande venditore di pubblicità al mondo. Tocca ogni parte dell’industria, direttamente o indirettamente. Tutti, in un modo o nell’altro, hanno un interesse in Google”.
Ecco, penso che questa dichiarazione non solo evidenzi quanto sia complesso per i rivali competere con il colosso di Mountain View, ma anche il pericolo che, se Big G dovesse essere ritenuta colpevole, a farne le spese saranno gli inserzionisti e i piccoli imprenditori che utilizzano i servizi di Google.
Google ha davvero ucciso il giornalismo?
L’accusa principale è che Google sfrutterebbe la sua posizione dominante per vincolare gli editori e gli inserzionisti ai suoi strumenti, eliminando di fatto la concorrenza.
Una situazione che avrebbe avuto effetti devastanti anche sui media tradizionali: dal 2005, un terzo dei giornali negli Stati Uniti è stato chiuso o venduto (ma imputare il tracollo dell’editoria unicamente a Google, mi pare quantomeno semplicistico).
Comunque, il DoJ, non arretra di un millimetro, per loro la consolidazione del mercato pubblicitario è una delle cause principali della crisi del giornalismo, e Google sarebbe uno dei principali responsabili.
Jonathan Kanter, a capo della divisione Antitrust del Dipartimento di Giustizia, come riportato da The Verge, non ha usato mezzi termini:
“Il giornalismo è sotto minaccia a causa della concentrazione nel mercato pubblicitario. Non avevo mai visto nulla di simile in vita mia”.
D’altronde non è difficile immaginare perché i media tradizionali, già in difficoltà con la transizione al digitale, vedano Google come un avversario più che un alleato.
Yelp VS Google: un problema tira l’altro
Intanto, della serie “un problema tira l’altro”, anche Yelp ha intentato una nuova causa antitrust contro Google, accusandolo di monopolizzare i servizi di ricerca locale favorendo i propri prodotti a discapito della concorrenza.
La causa, presentata in California, sostiene che Google indirizzi gli utenti verso i propri servizi attraverso la sua pagina di ricerca, soffocando la crescita dei rivali.
Yelp (che rifiutò un accordo con Google da mezzo miliardo di dollari) afferma che questo comportamento danneggi i consumatori e gli inserzionisti, peggiorando la qualità dei servizi e aumentando i costi pubblicitari.
Google, ovviamente, ha respinto le accuse, dichiarando di non essere obbligata a condividere i suoi vantaggi tecnologici con i rivali e che i suoi strumenti pubblicitari sono perfettamente compatibili con quelli offerti dalla concorrenza.
Non solo, secondo Google, il Dipartimento di Giustizia starebbe guardando solo a una parte del mercato, trascurando la crescita di altre forme di pubblicità, come quella sui social media, le piattaforme di streaming e le app mobili. In queste aree, afferma Google, la concorrenza è spietata, e il suo controllo del mercato non supera il 30%.
In altre parole, Google sostiene che l’accusa stia dipingendo un quadro distorto della realtà. E, come al solito, si appella a un principio basilare del capitalismo: “Abbiamo successo perché i nostri prodotti sono migliori”.
Ma la mia umile risposta è sempre: se Big G ha una fiducia così alta nei suoi servizi perché paga i concorrenti per renderli predefiniti nei loro dispositivi?
Penso, per dire la prima che mi viene in mente, ai 20 miliardi di dollari pagati ad Apple, per mantenere Google come motore di ricerca sugli iPhone.
Le conseguenze per Big G: le proiezioni di Morgan Stanley
Ma se il Dipartimento di Giustizia avesse la meglio?
Gli analisti di Morgan Stanley hanno già delineato quattro possibili scenari.
Il meno grave comporterebbe la rimozione delle clausole di esclusività dagli accordi di distribuzione e l’introduzione di “schermate di scelta” per i motori di ricerca. Un impatto minimo, secondo gli esperti, con una riduzione dell’utile operativo tra il +15% e il -2% entro il 2028.
Gli scenari peggiori, invece, vedono restrizioni più pesanti che potrebbero tagliare le gambe a Google nel mercato delle aste pubblicitarie, portando a un calo dell’utile fino al 23% nello stesso periodo. Insomma, non sarebbe un disastro immediato, ma per Google sarebbe comunque una battuta d’arresto significativa.
E, come al solito, il prezzo delle azioni risente delle incertezze legali. A questo proposito, è interessante notare come Morgan Stanley abbia abbassato l’obiettivo di prezzo per Google da 205 a 190 dollari, implicando un potenziale rialzo del 16%, ma restando molto prudente vista la volatilità del contesto.
Gli analisti di Barclays, invece non sono dello stesso avviso, secondo loro, gli investitori non dovrebbero essere troppo allarmati da questa vicenda, ad eccezione di possibili effetti negativi derivanti dall’attenzione mediatica.
La ragione, a quanto sostengono, come si può leggere su Investing.com, è che l’intero ecosistema tecnologico pubblicitario di Google incide per meno del 5% sul margine lordo dell’azienda, e la specifica area oggetto del processo rappresenta appena l’1% del profitto lordo. Il processo si terrà a settembre come abbiamo visto, ma il verdetto è previsto all’inizio del 2025, con eventuali misure correttive in seguito.
Barclays suggerisce che Google potrebbe essere costretta a “separare alcune funzioni chiave del suo business pubblicitario, in particolare il reindirizzamento delle impressioni tramite il suo ad server verso il proprio ad exchange, escludendo i competitor.”
“Rimuovere questo pacchetto avrebbe un impatto limitato sulle entrate complessive,” hanno concluso.
Ma se Big G non ha molto da gioire ultimamente, anche altri suoi competitor sembra abbiano qualche bella gatta da pelare…
Anche Nvidia nel mirino dell’Antitrust: ora si rischia l’effetto domino
Non è solo Google a essere sotto tiro. Nvidia, il colosso dei chip per l’intelligenza artificiale, sta vivendo momenti difficili. Dopo un crollo in Borsa che ha bruciato 10 miliardi di dollari del patrimonio del suo fondatore, Jensen Huang, l’azienda è ora sotto indagine Antitrust.
Il DoJ, come scrive Il Sole 24 ore, vuole capire se Nvidia stia abusando della sua posizione dominante nel mercato dei chip AI, limitando la scelta per i clienti.
L’indagine potrebbe portare nuove complicazioni per Nvidia, proprio mentre l’azienda si trova al centro del boom dell’intelligenza artificiale. Un colosso che fino a poco tempo fa sembrava inarrestabile, ma che ora dovrà difendersi dalle accuse di monopolio.
A Mountain View nel frattempo seguono il caso da spettatori interessati, infatti, come ricorderai, Nvidia e Apple hanno deciso di finanziare OpenAI proprio in funzione anti-Google.
Se i concorrenti di Google inizialmente avevano ragione di esultare per le grane legali di Big G, ora sembra abbiano ben poco da ridere.
Google sotto assedio: quali rischi per le PMI?
In seguito alla condanna di Google per monopolio di agosto 2024 mi pare che si sia aperto il vaso di Pandora e il DoJ, così come le Authority Antitrust, ma non solo, si sentano più libere e legittimate, anche politicamente, a indagare su tutto e tutti, senza più remore.
Insomma, una volta che Google non è più intoccabile, immaginate cosa possa succedere agli altri colossi Big Tech.
In vista delle elezioni USA, sia Kamala Harris che Donald Trump, hanno paventato l’idea di voler liberalizzare di più il mercato digitale, per cui a Mountain View, non credo siano molto rilassati.
Ma qual è il problema per chi ha un sito web da cui derivano gran parte dei suoi ricavi?
Se Google dovesse essere condannata, potrebbero esserci cambiamenti significativi nelle sue pratiche pubblicitarie, con possibili ripercussioni sui costi e sull’efficacia delle campagne.
E per un imprenditore che si affida a Google per la pubblicità o che lavora sul web, le conseguenze di queste cause Antitrust potrebbero essere rilevanti. Eventuali tagli o restrizioni ai servizi di Google potrebbero colpire direttamente il traffico e la visibilità dei siti, influenzando negativamente le performance aziendali.
Inoltre, come abbiamo già visto con il caso del taglio agli editori australiani, Big potrebbe decidere, in caso di smantellamento dei suoi asset principali, di rifarsi facendo economia. E indovina chi potrebbe rimetterci?
Per questo motivo, proprio per essere lungimiranti, a mio parere, focalizzarsi solo su ads e pubblicità, potrebbe essere molto rischioso. Per far conoscere il proprio sito web, posizionarsi in cima ai risultati, ciò che occorre è una strategia seria che solo un consulente SEO esperto può assicurarti.
Takeaways
- Il 12 settembre 2024, Google affronterà un processo in Virginia per presunto abuso nel mercato della pubblicità digitale, con l’accusa di monopolizzare il settore e limitare la concorrenza.
- La pubblicità rappresenta il 75% dei 307,4 miliardi di dollari di fatturato di Google nel 2022. Il Dipartimento di Giustizia afferma che Google controlla il 91% dei server pubblicitari e l’85% dei network pubblicitari.
- Se Google fosse ritenuta colpevole, potrebbe essere costretta a separare alcune funzioni chiave del suo business pubblicitario, con il rischio di una divisione della società.
- Le piccole imprese che si affidano a Google per la pubblicità potrebbero subire ripercussioni significative in caso di cambiamenti nei servizi pubblicitari di Google, con possibili aumenti dei costi e riduzione della visibilità.
- Il giudice Leonie Brinkema ha criticato Google per la gestione inappropriata di informazioni riservate, con particolare riferimento al “Walker Memo,” che consigliava di eliminare le tracce delle comunicazioni interne, sollevando dubbi sulla trasparenza dell’azienda.
FAQ
Perché Google è sotto processo antitrust nel settembre 2024?
Google è sotto processo per presunto abuso nel mercato della pubblicità digitale, accusata di monopolizzare il settore e soffocare la concorrenza attraverso il controllo di server, network pubblicitari e piattaforme di scambio.
Qual è l’importanza della pubblicità per Google?
La pubblicità è il cuore pulsante del business di Google, generando il 75% del suo fatturato di 307,4 miliardi di dollari nel 2022. La sua tecnologia pubblicitaria connette inserzionisti ed editori.
Cosa potrebbe accadere a Google se viene condannata?
Se Google venisse ritenuta colpevole, potrebbe subire una divisione delle sue attività pubblicitarie, influenzando inserzionisti e piccoli imprenditori che potrebbero vedere un aumento dei costi pubblicitari e una riduzione della visibilità online.