Crescita esponenziale, tempi di sviluppo brevissimi e tanta, tanta strategia. La somma di tutto questo è stata un acquisizione da parte di Microsoft per oltre 24 Miliardi. Un lancio digitale mica male.
Questa però non è una storiella a lieto fine avvenuta chissà quando. Quella di LinkedIn è una storia che si sta svolgendo ORA. Nello stesso qui e ora nel quale tu e io ci stiamo domandando come spingere oltre l’asticella.
Ti do una buona notizia: questa storia è ricca di spunti, dritte e di suggerimenti quasi sussurrati. Non è una storia come le altre, qui si parla dei maestri del Growth Hacking.
LinkedIn:Il social network che resta nonostante di Facebook.
Il web 2.0 era ancora da venire. Non c’era Facebook, non c’era Twitter, e non c’era nemmeno MySpace. C’era però nell’aria la temibile bolla delle dot-com.
Insomma, il 2003 non era di certo un periodo facile né favorevole per lanciare un social network, eppure proprio quell’anno Reid Hoffman lanciò sul mercato LinkedIn – dopo solo 6 mesi di sviluppo.
Si, hai letto bene, solo SEI MESI di sviluppo.
Nessuno, allora, avrebbe scommesso grandi cifre su quel progetto: insomma, chi voleva iscriversi ad un social network dedicato al mondo del lavoro, ancora prima che i social network divenissero quel fenomeno di massa che conosciamo oggi?
E in effetti, nei primissimi mesi i numeri non furono per nulla soddisfacenti, anzi.
Eppure oggi, nel 2017, LinkedIn può vantare 500 milioni di membri sparsi in 200 Paesi diverti, con due nuovi utenti registrati ogni secondo. Insomma, mentre tu te ne stai addivanato a guardarti una puntata di Game of Thrones il social network di Hoffman guadagna più di 7.000 utenti, tutti volenterosi di entrare nel network più grande del mondo dedicato al lavoro.
E così, quel progetto coraggioso e nato in tempi piuttosto bui, è arrivato ad attirare le mire e soprattutto i soldi della Microsoft, che nel 2016 ha acquisito LinkedIn per 26,4 miliardi di dollari, sborsando praticamente il PIL del Paraguay con l’acquisizione più grande mai fatta dalla società di Bill Gates.
Ma come ha fatto a crescere in modo così esponenziale LinkedIn? Quali strategie di mercato hanno permesso una diffusione così titanica?
Se fremi anche tu dalla voglia di imparare dai maestri del growth hacking, questo è il posto giusto per te!
Hoffman, che già negli anni Novanta pensava social
Tutto è nato da un Reid Hoffman, un informatico con trascorsi in Apple, in Fujitsu e in PayPal che già a metà degli anni Novanta stava lavorando attorno al concetto di social network.
Proprio così: nel ’97 lanciò SocialNet.com, una piattaforma che voleva connettere delle persone con interessi simili, dai giocatori di golf ai cuori solitari in cerca di compagnia.
Di fatto, questo progetto era un social network arrivato con sette anni di anticipo rispetto alla vera stagione dei social.
Ma la sfortuna di questa sua prima avventura non lo fece assolutamente desistere: con i soldi ottenuti in qualità di vice presidente esecutivo di PayPal, insieme ad alcuni ex colleghi (precisamente Allen Blue, Konstantin Guericke, Eric Ly e Jean-Luc Vaillant) si lanciò nello sviluppo di una piattaforma in grado di connettere i vari professionisti in modo da fornire un ambiente ideale in cui fare aiutare la crescita professionale dei diversi iscritti.
L’idea di partenza era quella legata alla teoria dei ‘sei gradi di separazione‘: non la conosci? Male, molto male.
Ma te la spiego subito, anche perché è davvero molto interessante!
Questa teoria semiotica e sociologica ipotizza che ogni persona può essere collegata ad ogni altra persona a livello mondiale attraverso una concatenazione di conoscenze non superiore ai 5 intermediari.
Il primo a formulare questa teoria fu lo scrittore ungherese Karinthy, ma questa venne ripresa in mano molte volte da altri studiosi.
Nel 1967 lo psicologo americano Stanley Milgram decise di testare sul campo questa ipotesi insieme alla sua ‘teoria del mondo piccolo’: dopo aver selezionato in modo casuale un gruppo di abitanti del Midwest, assegnò loro dei pacchetti da mandare ad un estraneo che abitava nel Massachusetts.
Di questa persona i mittenti conoscevano solamente il nome, l’impiego e la zona, ma non l’intero indirizzo.
Il loro compito, dunque, era spedire il pacchetto ad una persona conosciuta che, a loro dire, aveva più probabilità di conoscere quell’individuo.
Ebbene, la catena andò avanti di persona in persona: chi riceveva il pacchetto lo spediva a sua volta a qualcuno che forse, auspicabilmente, poteva conoscere il destinatario, o poteva a sua volta conoscere qualcuno che forse lo conosceva. Si potrebbe pensare che fossero servite decine e decine di scambi, eppure in media il pacchetto arrivò al destinatario in 5, 6, 7 passaggi, andando praticamente a confermare la teoria dei sei gradi di separazione. Questa, poi, fu ripresa in mano nei tardi anni Novanta dal portale Six Degrees, un business network online che fallì nel 2000, in piena bolla dot-com, dopo aver raggiunto 3,5 milioni di utenti.
Ti ho parlato di Milgram nell’articolo dedicato alla neuroscienza applicata al web: Leggi l’approfondimento sul Neuromarketing.
Hoffman e soci pensarono comunque che il suo modo di porsi fosse corretto, e acquisirono il brevetto sixdegrees per 700mila dollari.
Il difficile e lento lancio di LinkedIn
Il 5 maggio del 2003, LinkedIn fu ufficialmente lanciato in rete: nella prima settimana, furono raggiunti 12.500 utenti.
Niente male, ma viene certamente da sorridere pensando che oggi LinkedIn raggiunge quella medesima mole di nuovi iscritti ogni due minuti, no?
Stando alle testimonianze dei fondatori, la crescita all’inizio fu molto lenta. Taluni giorni, infatti, ci si fermava a sole venti nuove iscrizioni.
Di certo il frangente economico non giocava a favore del nuovo progetto online. Eppure Hoffman aveva un modo tutto suo di vedere la situazione: «sono pienamente convinto che una recessione economica è il momento perfetto per lanciare un business, perché ti mette in una corsia di accelerazione. É difficile attirare degli investimenti, ma se ci riesci, allora hai un vantaggio su tutti gli altri».
Ma a remare contro il loro social network non c’era solamente la particolare congiuntura economica, c’era anche lo spiacevole dubbio che in molti non avrebbero capito il concetto stesso che stava alla base di LinkedIn.
A quei tempi non c’era Facebook, il social media manager era una figura che ancora non aveva visto la luce e il social network che andava per la maggiore era Friendester: gli utenti avrebbero capito che le offerte di valore dei due portali erano totalmente differenti?
Avrebbero capito che LinkedIn era un portale serio, dedicato al lavoro, e non un posto in cui scambiarsi messaggini adolescenziali?
E, ancora più importante, se anche LinkedIn avesse iniziato a funzionare, non c’era il rischio che Friendester prendesse la palla al balzo aprendo una sezione del proprio portale dedicata ai profili professionali?
Dubbi come questi si sommavano uno all’altro e, come detto, all’inizio gli utenti crescevano un po’ troppo lentamente. Ma Hoffman e gli altri fondatori non si scoraggiavano, e non si muovevano dalle loro posizioni.
Come ha infatti spiegato il cofondatore Allen Blue nel 2012, in una conferenza dedicata proprio al growth hacking, non bisogna andare nel panico, né dimenticare la propria strategia:
«a meno che tu non abbia davvero un’ottima ragione per cambiare direzione, resta concentrato sulla tua strategia».
Così fecero anche loro e, nel giro di quattro mesi, LinkedIn arrivò a contare 50mila utenti, una quota sufficiente per dare forma ad un social network che proprio sul numero di iscritti può fondare il proprio impero.
I primi a credere nel progetto LinkedIn furono (tanto per cambiare) quelli di Sequoia Capital, che investirono già nel 2003 4,7 milioni di dollari nel social network: grazie a quei fondi, Hoffman riuscì a centrare il primo fondamentale obiettivo nel 2004, ovvero il milione di utenti.
Un social network serio, senza perdite di tempo
Di fatto quello che offriva LinkedIn ai propri utenti era qualcosa di totalmente nuovo.
Quei pochi e ancora flebili social network disponibili all’epoca non erano certo efficaci come punti di ritrovo per parlare di lavoro. A questo si sommava il fatto che, come riportava Forbes in un articolo di quei tempi, «lo step più difficile nel trovare un lavoro, un dipendente o un business-partner è poter individuare delle referenze concrete e sicure».
E qui in mezzo, tra la mancanza di luoghi online dove parlare di lavoro e la difficoltà di assicurarsi delle referenze, si piazzò LinkedIn con la sua teoria dei sei gradi di separazione.
Ma attenzione, dall’esperienza di Six Degress quelli di Linkedin avevano imparato che non bastava un’idea giusta (quell’idea) per avere successo come business network. No, era necessario fare di più, per dare al proprio portale una serietà di fondo che nessun altro poteva vantare.
Invece di lasciare che qualsiasi utente mandasse richieste di contatto a destra e a manca, LinkedIn partì fin da subito con delle regole ferree: ci si poteva connettere solo con persone realmente conosciute, oppure con persone con le quali si potevano contare dei solidi collegamenti sul piano lavorativo.
Pensate un po’: fosse stato differente, ogni manager di successo, direttore delle risorse umane o imprenditore iscritto a LinkedIn sarebbe stato automaticamente sommerso da richieste di contatto e spam, finendo ovviamente per lasciare la piattaforma stizzito.
In questo modo, invece, attraverso queste connessioni ‘controllate’, LinkedIn si presentò già alla sua nascita come un sistema sicuro e tranquillo in cui poter intessere i propri rapporti professionali e migliorare la propria carriera.
La scelta dei primi utenti di un social network: dove iniziare?
Certo si fa presto a parlare del lancio di LinkedIn. Ma come iniziò tutto quanto nel concreto?
Lanciare un social network in rete, di fatto, è come vendere a qualcuno una scatola vuota con la promessa che quella si riempirà come per magia di tantissime cose interessanti e utili.
Facebook, qualche tempo dopo, risolse questo problema aprendosi dapprima ad un sola università; Uber, per fare un esempio totalmente diverso, ha pensato invece di aprirsi ad una città alla volta. Per assicurarsi un buon slancio iniziale, LinkedIn decise di concentrarsi sulla sola scena digitale e ipertecnologica della Silicon Valley.
Di fatto, ai fondatori bastò invitare tutti i gli ex colleghi con i quali avevano lavorato in un modo o nell’altro intorno per la Silicon Valley, senza invitare direttamente nessun altro.
Come lo stesso Hoffman spiegò in seguito, «durante i primi giorni preferimmo iniziare lentamente perché volevamo essere sicuri che il sistema funzionasse a dovere.
«Penso che i 13 associati invitarono 112 persone».
Ecco, così inizia la storia di un Social Network che oggi conta 500 milioni di iscritti: un pugno di persone ne invitano un altro centinaio.
Ma attenzione, non furono invitate persone a caso: gli inviti non furono mandati al paninaro all’angolo, allo stagista dell’ufficio di sotto oppure all’impiegatucolo contabile della Silicon Valley.
No, su espresso ordine di Hoffman furono invitate solo persone operanti in quell’area ma soprattutto di successo, che potevano quindi contare su una fitta rete di conoscenze importanti.
Poter contare come primissimi utenti proprio i nomi tutelari dell’era dot-com fu ovviamente il primo ed essenziale motivo che trasformò il portale in qualcosa di intrigante, e potenzialmente utilissimo per i nuovi utenti.
Ma questo fattore non attirò solamente nuovi utenti, no, fece di più, facendo arrivare pian piano anche i primi inserzionisti e sì, anche i primi finanziatori.
Essendosi assicurati i nomi dei manager e degli imprenditori con i quali la gente desiderava effettivamente entrare in contatto, la crescita iniziò a procedere in modo spontaneo e naturale.
L’ambiente dinamico della Silicon Valley, poi, raddoppiò il valore di LinkedIn , in quanto in un campo in cui i cambi di lavoro tra una start up e l’altra erano continui, così come anche i cambi di indirizzo email e di telefono, l’account su LinkedIn diventava via via un affidabile punto fermo sul quale fare affidamento per connettersi.
I primi soldi di LinkedIn
Ma come fece LinkedIn a monetizzare il proprio servizio?
Beh, dapprima semplicemente non lo fece affatto. Ad un anno dal lancio, nel 2004, iniziò ad inserire dell’advertising, anche se va detto che il ritorno economico fu dapprima ridicolo.
Solo nel 2005, quando insieme alla pubblicità vennero aggiunte anche le sottoscrizioni a LinkedIn, il gioco si fece produttivo, e il 2006 fu il primo anno un cui lo il bilancio del social network volse in attivo.
La combinazione vincente, dunque, era quella di mixare ads on site, account freemium e account premium.
Come ha spiegato Hoffman, «capimmo piuttosto in fretta che gli abbonamenti ci avrebbero aiutato a raggiungere la redditività in tempi brevi: lanciammo dunque le sottoscrizioni, per chi voleva avere maggiori possibilità in termini di ricerca e di comunicazioni. La gente aveva infatti bisogno di parlare anche con le persone che non conosceva».
La versione di LinkedIn a pagamento, gli account Premium, offrono dei servizi di gran lunga superiori a quelli della versione gratuita, i quali per altro sono comunque di tutto rispetto.
Così come tanti altri colossi del web 2.0, dunque, anche Linkedin ha sfruttato la strategia freemium per garantirsi una crescita economica oltre che numerica, con abbonamenti Basic da 20 dollari al mese fino a degli account pensati appositamente per le agenzie di ricerca del personale, i quali arrivano a canoni mensili di svariate centinaia di dollari.
La crescita virale
Come in ogni social network che si rispetti, la crescita vera e propria è affidata agli stessi utenti.
È la stessa quantità di utenti iscritti a LinkedIn che rende profittevole l’iscrizione per i nuovi utenti, e sono poi loro stessi ad invitare altre persone ad iscriversi perché in questo modo la loro rete di connessioni sarà più ampia.
E c’è di più: gli utenti iscritti non sono solamente portati a portare nuove persone, ma giocano anche un ruolo decisivo nel convertire in attivi degli utenti che per lungo tempo non hanno compiuto alcuna azione su LinkedIn.
Il gioco della piattaforma, ovviamente, è quello di oliare e incentivare il più possibile questo meccanismo virale, proprio perché un social network LinkedIn può esistere solo ed unicamente in questo modo.
Come ha spiegato Hoffman, «nel 2003 ci importavano solo due cose, la messa a punto e la crescita virale».
L’obiettivo dei soci era, come detto, raggiungere il milione di utenti.
Per riuscire a farlo, però, bisognava per prima cosa raggiungere un numero sufficiente di utenti di modo che la funzione di ‘ricerca utenti’ o quella di ‘condividere delle informazioni’ fossero davvero efficienti.
Insomma, per fare tantissimi utenti bisognava prima iniziare a fare tanti utenti, e questo aspetto è sia il bello che il brutto della viralità, non credi?
Per raggiungere i propri scopi, quelli di LinkedIn diedero il via a quello che adesso viene chiamato Double Viral Loop, una serie di strategie di growth hacking da manuale che, in effetti, da lì in poi hanno fatto scuola.
Da un certo punto di vista, è quasi inutile domandarsi cosa hanno fatto quelli di LinkedIn per assicurarsi una crescita così poderosa: sarebbe più facile rispondere invece alla domanda ‘cosa non hanno fatto’?
La viralità, diversamente da come la potrebbero pensare gli utenti di YouTube o di qualsiasi altro social network, è infatti il risultato di pianificazioni e test, non è frutto della casualità.
Certo, un po’ di fortuna non guasta, ma ehi, arrivati ad un certo punto non basta!
Proprio per questo motivo, nel primo periodo Hoffman e compagni accantonarono del tutto l’idea di un guadagno, o anche solo di un ricavo: prima di pensare o anche solo immaginare una qualsiasi forma di monetizzazione come l’advertising oppure gli abbonamenti, infatti, si imposero di pianificare a dovere il cammino di crescita di LinkedIn.
E non fu certo fatto in quattro e quattr’otto: i primi due anni dell’attività furono risucchiati completamente nel creare la giusta strategia complessiva di Growth Hacking.
L’analisi del comportamento degli utenti prima di tutto
Come qualsiasi esperto Growth Hacker suggerisce, la prima cosa che iniziarono a fare quelli di LinkedIn fu analizzare nel dettaglio ogni comportamento degli utenti di fronte alle loro richieste o alle loro opzioni.
Un esempio su tutti: i conoscenti da invitare al momento della propria iscrizione su LinkedIn.
Quanti dovevano essere? 2? 10?
Test dopo test, prova dopo prova, arrivarono a capire che il numero aureo in quel caso era quattro.
Proponendo meno campi da riempire, infatti, gli utenti non vi trovavano un vero significato, né una concreta utilità, e skippavano la pagina.
Trovandone di più, invece, gli utenti si sentivano sopraffatti da cotante operazioni richieste.
Ti ricordi quando nel lancio di HotMail Draper battè per mesi sulla possibilità di inserire sul fondo di ogni singola email il messaggio ‘Ps: I love you. Get you free email at Hotmail’?
Ebbene, Linkedin ha fatto una cosa se possibile ancora più acuta, seppure meno appariscente, infilando in automatico in ogni invito ad unirsi al portale lanciato dagli utenti già iscritti questo chiusura testuale:
«Connettiamoci direttamente. Sono felice di aiutarti, e questo porterà molto probabilmente i nostri network a diventare più grandi».
Già a partire da questo semplice messaggio, infatti, quello di LinkedIn instillavano nel potenziale nuovo utente la possibilità che quel servizio potesse essere davvero utile per la sua carriera lavorativa.
E, come ci ha insegnato quel pazzesco film di Christopher Nolan che è Inception, non è facile piantare un’idea nella mente di una persona… ma quando ci si riesce, si può fare davvero qualsiasi cosa
Gli utenti devono essere attivi
E così, grazie a questi sforzi, erano davvero molti gli utenti che rispondevano positivamente all’invito e si iscrivevano a LinkedIn.
Ma questo non era sufficiente: un social network non ha bisogno solamente di nuovi iscritti, ha bisogno di utenti attivi. Il problema, però, è che molti utenti di LinkedIn potevano vantare un solo collegamento, in quanto avevano accettato volentieri l’invito ad iscriversi perpetrato da amici, colleghi e conoscenti, ma non avevano poi compiuto gli altri step per connettersi con altri utenti e quindi sfruttare le potenzialità del portale.
Oltre a tutto questo, poi, meno di un utente su 4 andava effettivamente a inserire – come da invito al termine della registrazione – gli indirizzi email di persone che non erano ancora iscritte al social network.
Insomma, a Hoffman e compagni servivano degli strumenti per mobilitare e attivare i propri utenti, un problema che hanno del resto un po’ tutti i soggetti presenti in rete.
Se hai ancora bazzicato su LinkedIn sai sicuramente qual è stata una delle principali soluzioni attraverso le quali il portale ha cercato di attivare fin da subito i neo iscritti, mostrandogli immediatamente il lato bello, utile e veloce del proprio servizio: ha dato agli utenti la possibilità di importare i propri contatti.
Certo, oggi ci sembra una cosa piuttosto normale, ma vi assicuro che nel 2004, all’alba dell’epoca dei social network, era una novità quasi assoluta. Chi avrebbe mai immaginato che potesse bastare inserire il proprio indirizzo email su LinkedIn per importare in un batter d’occhio tutti i propri contatti, quindi colleghi, dipendenti, collaboratori, conoscenti e amici?
Ma questo non fu certo l’unico metodo utilizzato da Linkedin per fare in modo che il momento ‘aha!‘ dei propri utenti fosse il più vicino possibile al primo login: lo scopo, infatti, era che i nuovi iscritti capissero subito che sì, quello era proprio il portale giusto per aiutare la crescita e l’avanzamento della loro carriera.
Per farlo dovevano però circondarsi subito di contatti, a partire da quelli più vicini.
E visto che gli analisti di LinkedIn studiavano minuziosamente ogni comportamento degli utenti, non ci volle molto a scoprire che il 90% dei nuovi iscritti rispondeva volentieri alla domanda relativa al loro attuale posto di lavoro e al loro ruolo: da lì imbastirono dunque il Reconnect Flow, uno stratagemma che rendeva facilissimo instaurare le prime connessioni su LinkedIn.
Il funzionamento è davvero semplice: non appena il portale viene a sapere che tu lavori alla Assicurazioni Furbette di Segrate, il portale non fa altro che proporti nella schermata successiva tutti i dipendenti della medesima compagnia di assicurazioni che sono già iscritti, cosicché a te non serve altro che selezionare e quindi connetterti agli utenti che LinkedIn ha già trovato per te!
Questo metodo funzionava, funzionava benissimo, e per questo si decise di allargarlo all’indietro, domandando agli utenti anche le posizioni lavorative precedenti: in questo modo non venivano presentati solamente i contatti dei colleghi attuali, ma anche quelli degli ex-colleghi!
Ecco, adesso dovresti aver capito la potenzialità del Reconnect Flow di LinkedIn.
Ma se hai letto i miei post dedicati al mondo del Growth Hacking dovresti ormai aver imparato che le strategie messe in campo da aziende come queste agiscono quasi sempre su più fronti, ed è questo il caso: non solo il Reconnect Flow garantiva un utilizzo completo immediato di Linkedin per i nuovi iscritti, ma richiamava sul sito degli utenti che magari non erano attivi da tempo, in quanto interpellati direttamente dal collega o dall’ex collega appena iscritto.
Altri risultati eccellenti di questa strategia furono inoltre l’aumento delle visualizzazioni di pagina, cresciute del 41%, e delle ricerche interne (33%).
Il Reconnect Flow, dunque, lavorò esattamente come un sassolino buttato nell’acqua, creando cerchi sempre più grandi intorno a sé, arrivando ad essere la punta di diamante del cosiddetto Double Viral Loop: nuovi utenti invitano altri nuovi utenti che a loro volta richiamano sul sito vecchi utenti i quali, tornando su LinkedIn, finiscono per invitare altri nuovi utenti.
Pensa un po’: il concetto di ‘viralità’ era appena nato e quelli di LinkedIn riuscivano già a ‘raddoppiarlo’!
Questo per dire che, laddove molte aziende puntano tutto su campagne di advertising e campagne email per aumentare il proprio pubblico e l’engagement dei propri utenti, tante volte basta invece lavorare di più sull’utilizzo dei dati di cui si è già in possesso, spendendo molto meno e raggiungendo risultati molto più appetibili!
Conosci non solo i tuoi punti di forza, ma anche le tue debolezze
Quelle elencate fino ad ora sono alcune delle tecniche che, tra le altre cose, hanno permesso ai fondatori di LinkedIn ed ai loro preziosi manager di diventare dei veri e propri guru in fatto di Growth Hacking: è impossibile, del resto, parlare di questo innovativo paradigma di crescita senza ritrovarsi a citare una o più di queste persone, che tra l’altro sono spesso al centro dei più importanti convegni di Growth Hacker organizzati a livello internazionale.
È il caso di Elliot Shmukler, ex product manager di Linkedin, che in occasione della Growth Hacker’s Conference 2012 ebbe a dire che «è più facile concentrarsi sui propri punti di forza piuttosto che migliorare le proprie debolezze».
E infatti LinkedIn alla lunga ha seguito esattamente questa filosofia. Nel 2008 LinkedIn si pose come obiettivi principali migliorare i risultati degli inviti via email e aumentare le iscrizioni dirette dalla homepage.
Gli inviti via email funzionavano solo nel 4% dei casi e, dopo due anni di lavoro, arrivarono a funzionare al 7% dei casi.
Le iscrizioni dirette dalla homepage, dopo soli 4 mesi di sforzi, passarono dal 40 al 50%.
Ecco, questo vuol dire che sì, è più difficile arrivare a dei risultati concentrandosi sulle debolezze piuttosto che sui punti di forza. Ma per poter mettere in pratica questo insegnamento bisogna aver ben chiaro in mente quali sono i propri punti deboli, no?
E tu come sei messo da questo punto di vista?
Analizzi in modo esatto e puntuale tutto tutti i dati in tuo possesso sul comportamento dei tuoi utenti, e sai alla perfezioni in quali punti il tuo sistema risulta meno efficiente?
Per farti un esempio, il team di LinkedIn ad un certo punto si è accorto che gli utenti che arrivavano sul portale direttamente in modo organico, visitavano in media trenta pagine per ogni sessione; quello che invece arrivavano attraverso un invito, sempre mediamente, si fermavano ad una decina di pagine.
Da questo capirono senza ombra di dubbio che gli inviti via email non erano di certo lo strumento sul quale dovevano puntare per vedere aumentare significativamente il proprio pubblico.
E, nello stesso momento, capirono che dovevano raddoppiare i propri sforzi per rendere ancora più efficace il loro punto di forza, ovvero l’iscrizione diretta per gli utenti che arrivavano con le proprie gambe sulla Homepage, rimuovendo ogni possibile ostacolo.
Lo stesso atteggiamento fu utilizzato nei confronti delle email del servizio ‘Chi ha guardato il tuo profilo‘.
Hai presente quelle email che ti arrivano di tanto in tanto e che ti avvisano che Tizio, Caio e Sempronio hanno visualizzato il tuo profilo LinkedIn negli ultimi 10 giorni?
Ecco, gli analisti qualche anno fa si sono accorti che il CTR di quelle email era molto basso per quanto riguarda gli utenti inattivi (5%) ma che era invece alto sul versante degli utenti attivi (20%). Invece di andare a migliorare il punto debole, quelli di LinkedIn si sono buttati anche in questi caso sul proprio punto di forza, ovvero gli utenti attivi, andando a scrivere email più attraenti, con degli oggetti più intriganti e insomma, un lavoro di copywriting sempre più efficace.
Sulla falsa riga di quanto detto prima, Shmukler commentò tutto questo spiegando che:
«è più facile riuscire a far fare qualcosa in più ad un utente attivo piuttosto che riuscire a far fare una cosa qualsiasi ad un utente disattivo».
Tra le migliori caratteristiche del team di LinkedIn si può dunque assolutamente annoverare la grande capacità di capire cosa funzionava bene e cosa no, cambiando il proprio approccio di conseguenza.
Una questione di leadership
Ma togliamoci un attimo dal team di sviluppo vero e proprio di LinkedIn e guardiamo al lato economico e gestionale della società, anche questi aspetti degni di nota nella storia del social network.
Quando l’azienda diventò davvero grande, nel 2007, Hoffman iniziò a pensare che era decisamente il caso di affidare le redini a qualcuno di realmente capace: il suo pensiero andò quindi a Dan Nye, un manager che aveva fatto molto bene alla Proctor&Gamble e che sembrava essere pronto per il grande salto.
Non fu però così: Nye non risultò all’altezza, i dipendenti lo capirono presto, e così, dopo appena due anni, il nuovo manager rimise tutto in mano ad Hoffman.
Ma la crescita del portale non accennò a rallentare, e la nomina di un nuovo CEO con le palle quadrate continuava ad essere pressante.
Dopo attente riflessioni, Hoffman si buttò su Jeff Weiner, giovane manager di Yahoo! che aveva già coordinato centinaia se non migliaia di dipendenti. Per andare sul sicuro, però, gli venne affidato prima il ruolo di presidente dell’azienda, e solo dopo questo ‘periodo di prova’ potè divenire il vero CEO di LinkedIn.
Sotto la guida di Weiner LinkedIn continua a volare: nel 2010, a 7 anni dal suo lancio, gli utenti iscritti sono più di 90 milioni, e la società conta 10 uffici sparsi intorno per il globo.
Il passo successivo da fare è noto a tutti, ovvero quotazione in borsa: nel maggio del 2011, infatti, la società viene quotata in borsa a New York – da lì in poi, va detto, il titolo vivrà i momenti più disparati, sia prima che dopo l’acquisto di Microsoft (la quale, fino al dicembre 2016, era rimasta tra le poche realtà colossali dell’hi-tech a non poter vantare nemmeno un social network)
La tua pagina LinkedIn, su Google
Prima ti ho parlato della funzione relativa all’importazione di contatti in LinkedIn, sottolineando il fatto che oggi può sembrare del tutto normale, mentre un tempo non lo era affatto.
Ma suvvia, c’è un’altra cosa che LinkedIn ha fatto che prima era del tutto impensabile, e anzi, anche oggi a pensarci su è abbastanza fuori di testa.
Davvero non ti viene in mente?
Facciamo così: se sei iscritto a LinkedIn, ti invito ad andare su Google e a scrivere il tuo nome. Ecco, a meno che tu non sia un Vip, e a meno che non lo sia un tuo omonimo – magari ti chiami Gigi Buffon, o magari ti chiami Sophia Loren – tra i primissimi risultati restituiti da Google salterà fuori proprio la tua pagina LinkedIn.
Non è forse vero?
Ecco, una cosa pazzesca fatta da LinkedIn è stata esattamente quella di rendere pubblici e dannatamene SEO oriented i profili dei propri utenti. Questo espediente ha portato il portale sotto gli occhi di tantissime nuove persone, le quali, per andare a connettersi con quel profilo pubblico ricercato più o meno volontariamente, dovevano in ogni caso iscriversi al portale.
E se da una parte questa indicizzazione dei profili sui motori di ricerca giocava a tutto favore di quegli utenti che volevano promuovere la propria figura attraverso quello specifico social network, d’altro canto gli utenti più sensibili alla privacy potevano – e possono tuttora – nascondere le rispettive pagine dalle ricerche su Google.
Migliorare la user experience
Parallelamente agli sforzi tesi a portare sempre più persone sul portale, quelli di LinkedIn si sforzarono sempre di più per fare in modo che la user experience fosse la migliore possibile.
La prima versione di LinkedIn, per esempio, non permetteva agli utenti di scoprire quanti gradi li separava dalle persone con cui volevano connettersi (un recruiter, il direttore di una potente azienda, un guru del proprio settore): dopo alcuni mesi, LinkedIn decise di specificare in modo chiaro i gradi di separazione tra ogni contatto, così da rendere più facile la vita di chi voleva entrare in contatto con degli utenti specifici.
Sempre nella prima versione di LinkedIn le ricerche interne erano sì possibili, ma solo per titoli e per competenze, non per nome e cognome, come se il portale fosse un immenso ufficio di selezione del personale totalmente meritocratico.
Ma gli utenti volevano di più, volevano connettersi con nuove persone e volevano mantenere i contatti con vecchi colleghi, e quindi abbisognavano di un altro tipo di ricerca. Detto fatto, LinkedIn introdusse la ricerca per nome e cognome.
Continuando ad analizzare giorno dopo giorno il comportamento dei propri utenti, il team di LinkedIn è riuscito a migliorare nettamente la user experience, arrivando ai risultati odierni. Come specificato dalla stessa società, i nuovi obiettivi erano quelli di semplificare e sì, crescere ancora, ogni giorno.
LinkedIn si rafforza e diventa un centro editoriale
Il fatto che LinkedIn non è assolutamente un social network come gli altri è stato sottolineato, nel 2012, dall’acquisizione della piattaforma SlideShare, la quale, come si intuisce già dal nome, permette di condividere con gli altri utenti delle presentazioni professionali.
Lo scopo, costato a LinkedIn 119 Milioni di dollari,come ha voluto sottolineare l’attuale CEO di LinkedIn Jeff Weiner, era quello di «aiutare gli utenti a dare forma alla propria identità professionale».
La struttura di LinkedIn andava così arricchendosi di nuovi contenuti generati dagli utenti: al momento dell’acquisizione, peraltro, SlideShare poteva contare più di 9 milioni di presentazioni già inserite e circa 29 milioni di utenti unici mensili.
A sottolineare questa nuova presa di posizione, l’anno seguente LinkedIn acquisì anche il lettore Pulse, così da diventare davvero «la piattaforma di editoria professionale definitiva, dove tutti i professionisti arrivano per accedere ai contenuti e dove tutti gli editori si concentrano per condividere i propri documenti».
Ma non sono solo questi gli strumenti ad aver trasformato questo social in un appuntamento quotidiano per i suoi utenti più esigenti.
No, già nel 2011 era infatti stato lanciato LinkedIn Today, ovvero un aggregatore di notizie basato sulle condivisioni dei colleghi e dei rispettivi collegamenti, nonché sugli interessi del relativo settore lavorativo e sulle specifiche preferenze di ogni singolo utente.
LinkedIn Today funzionava, certo, ma mancava qualcosa… mancavano i contenuti originali, scritti appositamente per essere condivisi tra gli utenti di LinkedIn.
A cancellare questa mancanza venne in soccorso del portale il progetto Influencer, lanciato nel 2012. L’idea, in questo caso, era molto semplice, ma di fatto solo un portale come LinkedIn avrebbe potuto portare a termine una simile iniziativa: gli opinion leader, gli esperti, insomma, gli influencer – una su tutti: Arianna Huffington – iniziarono così a produrre contenuti ad hoc per il portale.
Arianna Huffington, insieme a Jonah Peretti, successivamente fondatore di BuzzFeed, fondarono il famoso Huffington Post.
Qui trovi l’approfondimento sul portale più virale del web: BuzzFeed, e se esistesse una ricetta per i contenuti virali?
Gli influencer erano portati a produrre un gran numero di contenuti in quanto ogni post riceveva in media 30.000 visualizzazioni, con picchi oltre i due milioni, cifre che un blog personale, per quanto seguito, difficilmente avrebbe potuto raggiungere.
LinkedIn ci guadagnava ottimi contenuti e quindi utenti soddisfatti – nonché, di conseguenza, nuovi iscritti. Gli utenti ci guadagnavano informazioni utili e interessanti. Gli influencer, beh, loro ci guadagnavano prima di tutto una visibilità enorme.
Conclusioni
Ecco, queste sono le armi con le quali LinkedIn ha assaltato la rete e si è ritagliato una enorme fetta di pubblico, che cresce ancora giorno dopo giorno.
Se sei arrivato fino a qui e se hai letto tutto questo post con attenzione, sono sicuro che anche tu hai già capito che sì, LinkedIn è esattamente il caso studio di lancio digitale da studiare a fondo per comprendere non tanto le tattiche, quanto il modo di pensare tipico dei migliori growth hacker.
Dalla strategia Freemium al Double Viral Loop, passando per i continui aggiornamenti basati sulle analisi degli utenti per arrivare alle fondamentali acquisizioni, ogni passo della società di Hoffman è il capitolo di un manuale da cui prendere spunto di volta in volta per affermare il proprio business attraverso la rete.
Prepara una strategia, attieniti ad essa, trova i tuoi punti di forza e, soprattutto, non togliere mai gli occhi dai tuoi utenti!