I primi due mesi del primo smartwatch Samsung
Nel 2013 Samsung lanciò il Galaxy Gear Smartwatch, l’orologio intelligente che avrebbe dovuto segnare il punto di svolta nel mercato del wearable: due mesi dopo il lancio del prodotto, Reuters riportava l’orgoglio del colosso coreano, il quale nei primi 60 giorni avrebbe venduto ben 800.000 esemplari.
Questo veloce successo, però, aveva solleticato la malizia degli esperti: nonostante la campagna pubblicitaria aggressiva e persistente, infatti, non sembrava che il Galaxy Gear avesse convinto poi molte persone: c’erano infatti moltissimi difetti e lacune, che mal si sposavano con un prezzo di vendita pari a ben 299 dollari.
Da dove arrivava, dunque, questa montagna di acquisti? Il malinteso ebbe vita breve, e l’arcano venne presto svelato: BusinessKorea ribatté infatti velocemente alle cifre pubblicate da Reuters, affermando che gli orologi Samsung effettivamente venduti, in realtà, erano meno di 50.000 (con una drammatica media, dunque, di appena 800 – 900 smartwatch venduti al giorno). E gli altri 750.000, che fine avevano fatto?
La disputa sulle vendite reali
Tutto nacque da un banale – ma non per questo meno clamoroso – errore di Reuters: gli 800.000 Galaxy Gear riportati dall’agenzia di stampa britannica non erano infatti gli orologi effettivamente venduti, ma quelli prodotti, imballati e consegnati nei negozi. Fidandoci dunque nelle cifre proposte da BusinessKorea, possiamo immaginare che gli altri 750.000 smartwatch stessero ancora prendendo polvere sugli scaffali dei negozi, ben lontani dall’essere allacciati ai polsi dei clienti.
Ci fu però chi volle andare ancora più a fondo nella questione, rigirando il coltello nella piaga: il sito Geek.com, entrato in possesso di documenti confidenziali Samsung, dichiarò non solo che il volume delle vendite era ridottissimo, ma che il 30% dei Galaxy Gear venduti venivano puntualmente riconsegnati ai negozi dai clienti pochi giorni dopo l’acquisto, a causa della disillusione sulle sue effettive potenzialità. I più maligni e più forsennati detrattori della Samsung azzardarono che il restante 70% dei clienti, invece, stesse ancora cercando di capire come far funzionare il proprio orologio nell’egregio modo che veniva mostrato nelle pubblicità televisive (sulle quali ritorneremo tra poco).
Le caratteristiche del Samsung Galaxy Gear
Ma com’era oggettivamente questo primo modello di Samsung Gear? L’idea iniziale del colosso coreano era quella di produrre il primo computer indossabile della storia: così, almeno, venne presentato al momento del lancio del prodotto. Dotato di sistema operativo Android e di uno schermo touchscreen da 1,63 pollici, il primo modello wearable della Samsung vantava un processore da 800 Mhz, 4GB di memoria, 512 Mb di ram, accelerometro, giroscopio e una fotocamera integrata da 1,9 Megapixel. Insomma, niente male per l’epoca: a offuscare tutti questi pregi, però, ci pensavano i suoi tanti difetti.
I troppi difetti: dal software all’hardware
E purtroppo, poco dopo il lancio del prodotto, ci si rese conto che i difetti del Samsung Galaxy Gear Smartwatch erano davvero numerosi: il dispositivo era infatti lontanissimo dall’orologio tuttofare alla James Bond che ci era stato promesso dalle pubblicità. Prima di tutto, non era un strumento standalone. Questo significa che abbisognava di una connessione ad uno smartphone per essere sfruttato appieno: fino a qui, in realtà, niente di abominevole.
Il problema, però, era che esso non poteva essere connesso a qualsiasi smartphone, bensì solo a pochi – ma molto costosi – modelli Samsung, come il Galaxy Note 3. Altro ostacolo alla sua popolarità era la durata della batteria, la quale, a dire della casa produttrice, sarebbe stata di 25 ore. In realtà la sua durata effettiva era persino inferiore, il che può risultare fastidioso per uno smartphone, figuriamoci per un orologio.
Altre critiche vennero mosse al display poco reattivo, al cinturino estremamente rigido e quindi scomodo, alla mancanza di funzioni social e più in generale alle funzioni limitate delle app, le quali permettevano di far ben poco prima di rinunciare ed estrarre il cellulare dalla tasca.
Di fronte a tutte queste lacune, le stroncature furono impietose: si arrivò persino a motteggiare il Samsung Gear come l’erede spirituale delle calcolatrici da polso prodotte dalla Casio.
Le stroncature dopo il lancio del prodotto
Quella che secondo Samsung doveva essere la next big thing, si rivelò dunque per essere un vero e proprio flop. Visti i molti difetti sopra elencati, non possono stupire le stroncature che piovvero sull’azienda sudcoreana dopo il lancio del prodotto: il New York Times descrisse il Galaxy Gear come «inaffidabile e frustrante», l’Enquirer sottolineò che «le sue feature non valgono i soldi che costa», mentre l’Engadget si mantenne su toni più ottimistici, dichiarando che lo smartwatch di Samsung aveva «bisogno di tempo per crescere».
Di fronte a questa mole di critiche pungenti, lo stesso vice presidente di Samsung, David Eun, ammise l’immaturità del proprio prodotto, paragonandolo ad un pomodoro verde che però , con le giuste cure, sarebbe divenuto rosso:
«Quando hai a che fare con l’innovazione e le startup, faccio sempre una analogia con un piccolo pomodoro verde. Hai a che fare con dei pomodorini verdi che occorre curare e portare avanti fino al momento della maturità. Ma devi stare attento a non raccogliere il pomodoro verde troppo presto, e devi anche assicurarti di non criticare troppo un pomodoro verde per non essere diventato ancora un grosso pomodoro rosso.
È un dispositivo 1.0. Lo adoro, ma è ancora alla versione 1.0. Personalmente, non credo che la gente ci abbia riconosciuto il giusto credito per aver innovato e averlo lanciato. Non è stato facile integrare tutte queste funzionalità in un unico oggetto. Ma vi assicuro che nel tempo questa cosa diventerà grossa e rossa».
Una prima versione imbarazzante
E certo oggi si può dire che nel tempo la linea wearable di Samsung è maturata: passando per il Gear 2, il Gear 2 Neo, il Gear Fit, il Gear Live, il Gear S fino alle due versioni del Gear S3, la casa sudcoreana ha indubbiamente dimostrato di aver imparato dai propri errori. Ma questo non cancella il fallimento del lancio del primo e peggiore prodotto, da ricondurre almeno in parte alla fretta di Samsung di anticipare l’uscita del temibile smartwatch della Apple, il quale, per inciso, è uscito ben due anni dopo. Per superare in velocità l’azienda di Cupertino, però, si finì per fare di peggio anche delle altre scuderie: il Sony SmartWatch 2, uscito lo stesso anno, era per esempio migliore del Gear in quanto in grado di connettersi a qualsiasi dispositivo Android.
Come finì per ammettere la stessa Samsung attraverso una dichiarazione del manager Kile Brown, «scegliere di rendere il Gear compatibile con i soli prodotti Samsung ha reso la nostra proposta difficilmente indirizzabile sul mercato».
Di certo questa esternazione è in linea con quanto predica uno che di innovazione se ne intende, ovvero il fondatore di LinkedIn Reid Hoffman: «se non sei imbarazzato della prima versione del tuo prodotto, vuol dire che l’hai lanciato troppo tardi». E, viste le metafore agronomiche di David Eun e il mea culpa di Kile Brown, l’imbarazzo in casa Samsung era effettivamente arrivata al livello giusto.
L’utilità nascosta dei dispositivi wearable
Il lancio del prodotto sensazionale della Samsung fu quindi troncato sul nascere dall’immaturità del dispositivo in quanto tale. Di certo alcune lacune di questo prodotto sono in realtà da estendere all’intera categoria degli smartwatch, almeno a quelli commercializzati fino a qualche tempo fa: scarsa utilità, notevole ingombro, durata della batteria risibile, ineleganza e, di nuovo, scarsa utilità.
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Sì, perché è proprio questo uno dei problemi principali del settore: far comprendere ai potenziali clienti quale impiego si potrebbe fare di uno smartwatch.
E in questo senso Samsung ha clamorosamente toppato: basti pensare ai video commerciali utilizzati dalla casa sudcoreana per il lancio del prodotto, in cui si riprendevano immagini di repertorio di Power Rangers, Knight Rider, Star Trek e l’Ispettore Gadget. Certo, potevano far sorridere i consumatori, ma di sicuro non potevano alimentare la fiamma dell’utilità del dispositivo. E quella non fu la peggiore pubblicità creata per il Samsung Gear: chi si ricorda del video commerciale in cui una bellissima ragazza veniva conquistata su una seggiovia da un improbabile nerd, unicamente grazie alle favolose app del suo scintillante smartwatch?
Conclusioni: una strada sbagliata
Quello che Samsung non capì, ancora prima del lancio del prodotto, fu che il mercato dei dispositivi wearable aveva già imboccato un’altra strada.
Ancor prima delle funzionalità di un dispositivo, bisognava infatti guardare e perfezionare il lato estetico, come avevano fatto, per esempio, Nike con il braccialetto FuelBand e persino Google con i suoi Google Glass. Questo perché – udite udite – le persone che nel terzo millennio indossano un orologio, in realtà non hanno alcun bisogno di indossarne uno.
Uno smartwatch deve essere funzionale, ma ancora prima deve gareggiare con gli eleganti e trendy orologi ‘classici’. E questo, per l’appunto, vale per tutti i prodotti wearable del mondo.
Insomma, gli errori effettuati intorno al lancio del primo Samsung Galaxy Gear Smartwatch si possono individuare sia nella fase produttiva – principalmente per la batteria improponibile, le app scarsamente utilizzabili, l’hardware da prototipo e il look poco intrigante – sia a quella più propriamente di marketing, incapace di spiegare il proprio prodotto alla clientela: del resto però, riuscire a cucire una concreta veste di usabilità intorno al Gear doveva essere, anche allora, una sfida davvero ardua.